La pelle al chiodo
Romanzo“Ha vinto questo schifo di mondo; abbiamo provato a cambiarlo e invece siamo noi a essere cambiati. Noi, si fa per dire, perché non c’è alcun Noi, non c’è mai stato, nemmeno quando si andava in piazza, solo tanti piccoli io esaltati dall’idea di guadagnarsi la maiuscola: essere diversi, migliori, giusti… stronzate…”
Nell’umbratile isolamento in un tugurio del centro storico di Genova, fallito l’ennesimo tentativo di rinunciare alla droga, a quel “tozzo di pace da sgranocchiare fino al ritorno in superficie dove implacabili attendevano il collare dei dubbi e il guinzaglio intrecciato dai fallimenti”, il giovane protagonista contempla il suicidio come l’unico modo di sfuggire al degrado della tossicodipendenza. La paura della morte tuttavia, indossata la maschera della ribellione all’umiliante epilogo, induce l’istinto di conservazione a escogitare l’alternativa di affidarsi al destino, al “viaggio senza orizzonte” che attraverso il deserto del Sahara lo condurrà nel Niger.
Sospettato dalla polizia militare di essere un mercenario, espulso da Niamey e costretto a viaggiare verso ovest, durante il viaggio che lo condurrà alla capitale dell’allora Alto-Volta contrae la malaria.
Prostrato dalla febbre si rifugia in un giardino adiacente alla stazione di Ouagadougou, nel quale, ironia del destino per un ex seminarista che gli studi filosofici hanno evoluto in ateo anticlericale, sarà una “miracolosa” coincidenza a salvarlo da morte certa.
Nella missione dei Padri Camilliani che lo hanno soccorso, tra le mura di una stanza spoglia come la sua anima, il senso della motivazione che lo ha spinto a partire affiora dal fiele dei pensieri fermentati nelle segrete della coscienza, da quei ricordi indelebili come un tatuaggio che col tempo si dilata, sfuma nei contorni, ma non scompare.
La rilettura degli appunti di viaggio, i colloqui con il Padre superiore e l’incontro con una donna, promuoveranno il flesso esistenziale che ha ispirato il titolo del romanzo.
Alessandro Arvigo
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