Alla radice del razzismo, comunemente inteso come rifiuto di chi proviene “da fuori”, non c’è un problema ma solo un difetto di mediazione culturale tra diversità antropologiche e di costume.
In base a questa tesi è normale essere razzisti: “Quelli” sono piccoli, scuri e pelosi, le donne hanno pure i baffi; e poi parlano in modo diverso da noi, mangiano altre cose, pregano divinità sconosciute. Vorrei a questo proposito chiarire che il velo in sé non mi crea alcun problema: ognuno è libero di vestirsi come gli pare, anche da palombaro se la cosa gli piace; quello che non accetto sono le imposizioni ingiustificate. Per tutte le altre differenze, purché rispettose delle leggi (giuste) vigenti nella comunità ospite, la mediazione culturale può stimolare positivamente lo sforzo di ristrutturazione del codice con cui elaboriamo “il diverso”.
Quando affrontiamo il problema del razzismo dunque, non ha senso rimarcare le differenze: avere una sola moglie come vuole la religione cattolica o il non bere alcolici osservato dai mussulmani non pregiudicano la pacifica convivenza, a condizione che non si pretenda di considerare le proprie scelte alla stregua di Comandamenti universali.
Qualcuno forse ha sorriso quando leggendo che i baffi delle donne potrebbero fare “la differenza” ma, da quelle che un tempo erano le mie parti, gli emigranti provenienti dal meridione erano discriminati per le differenze somatiche. Io sono per metà genovese, per l’altra metà ligure e ricordo molto bene i commenti sui meridionali che negli anni cinquanta emigravano in Liguria. Vi racconto un aneddoto sui pregiudizi che rappresentano l’humus nel quale affondano le radici del razzismo e del quale posseggo la certezza della fonte, dato che riguarda la buonanima di mia madre. Per un curioso scherzo del destino, nei primi mesi del 1980 ho dovuto atterrare a Palermo per far riparare il mio Spinnaker leggero, letteralmente esploso a causa di una forte raffica di vento. Nell’attesa che la veleria effettuasse la riparazione ho gironzolato in quella splendida città e incontrato una bella siciliana che in seguito ho sposato e per amore della quale mi sono trasferito nella sua terra. Ci sono voluti alcuni anni e due figli per convincere mia madre a venire a Palermo e sgombrarle la mente dai pregiudizi che nutriva nei confronti della Sicilia e dei siciliani. Ricordo ancora la sorpresa di mia moglie quando ricevemmo un pacco natalizio da mia madre: barattoli di pesto, acciughe sotto sale, focaccia, panettone genovese e, tenetevi forte, dieci saponette Lux. L’espressione di sconcerto negli occhi di mia moglie nell’estrarre dal pacco le saponette si era poi condensata in una domanda alla quale non ho voluto rispondere: “Ma tua madre pensa che a Palermo non si trovino le saponette?”
Da un punto di vista tecnico sono anch’io un emigrante, ma l’accoglienza ricevuta è stata ben diversa da quella riservata dai miei conterranei agli emigranti provenienti dal meridione; perché? Forse la ragione sta nel fatto che io provenivo dal prosperoso Nord ed ero per questo degno di rispetto e considerazione? Per qualcuno sarà anche stato così, ma sarebbe sbagliato identificare nelle mie origini settentrionali la causa dell’affettuosa accoglienza ricevuta. Le ragioni per cui in Sicilia, e credo nel Meridione in genere, “il diverso” è accolto e non rifiutato sta nella capacità di mediazione culturale dei siciliani; in altre parole, nell’essere antropologicamente aperti, ovvero propensi a contributi culturali provenienti dall’esterno, da chi viene “da fuori”.
Palermo è la città nella quale ho trascorso la maggior parte della mia vita e, una delle cose che me l’hanno fatta subito amare, è la naturale propensione dei suoi abitanti a considerare chiunque degno di viverci; un atteggiamento che nei secoli è diventato predisposizione, patrimonio genetico, caratteristica antropologica dunque, non solo conquista culturale.
In Sicilia, comunità appartenenti a diverse “razze” e religioni convivono in pace da sempre, poiché la diversità è considerata ricchezza che genera attrazione, piuttosto che ingerenza da guardare con sospetto. Viene da chiedersi se non sia stato un tragico errore della storia lo spostamento a nord del baricentro politico che ha consegnato il potere nelle mani degli anglosassoni…
Un ultima considerazione sulla bellissima fotografia di Alexia Oddo, che esprime meglio delle parole il concetto di mediazione culturale sul quale mi sono soffermato: l’Islam a spasso nel passeggino dopo la spesa al supermercato e, purtroppo, anche la tendenza ad abbandonare le strisce pedonali per attraversare la strada in diagonale, come nella migliore tradizione palermitana.
Se non è “mediazione culturale” questa…