Il senso del proverbio è così semplice che lo capisce anche un astemio: tra i tuoi propositi e la loro attuazione c’è un Mare da attraversare; quello che però il proverbio non dice è cosa ci aspetti in quel Mare se decidiamo di accettare l’ingaggio: viaggeremo in prima classe con un bicchiere in mano o nella sentina, con stoppa e bugliolo come compagni di avventura?
E nelle notti di tempesta che fanno rimpiangere ai marinai di essersi imbarcati, di non aver ascoltato il consiglio dei saggi di starsene al sicuro a casa, a godersi il ridosso delle montagne di antiche favole e moderne sciocchezze che anestetizzano l’anima, in quelle notti, quanti giureranno a se stessi di sbarcare al primo porto?
E se avessero ragione i “Saggi”? Se tutto ciò che serve per vivere fosse solo un recinto che ci protegga dai predatori, un luogo sicuro allietato dalla presenza di corpi caldi vicino e intorno a noi?
Quel magico di mezzo che c’è tra il dire e il fare, la sfavillante distesa di affascinanti promesse, quella liquida disposizione della coscienza a dare pensieri e carne ai nostri sogni, è anche una metafora del viaggio che un tempo ci siamo sentiti vocati a compiere, la fuga dal gregge dal quale abbiamo sentito il bisogno di prendere le distanze.
In molti della mia generazione abbiamo creduto che l’esplorazione del Mare potesse emendare la prospettiva della vita in bianco e nero ereditata dai genitori; siamo partiti, zaino e sacco a pelo sulle spalle, per tacitare le voci che c’intimavano di considerare i sogni come indesiderati effetti collaterali dell’infanzia; abbiamo inseguito il mito di una vita semplice, libera dalle convenzioni della civiltà, convinti che il problema di quel “di mezzo” dipendesse dalla paura di confrontarci con i suoni di lingue sconosciute e abbiamo confuso l’essenza della libertà con lo stupore della coscienza che annichiliva di fronte allo spettacolo della natura selvaggia.
A volte mi chiedo cosa ne sia stato degli inquieti con i quali ho condiviso le frustrazioni di una vita senza scopo: so che i più sono tornati in porto alla prima burrasca, paghi di avere qualcosa da raccontare agli amici del bar; alcuni invece, hanno infine trovato la propria Balena Bianca e con essa sono sprofondati negli abissi. Può apparire strano, ma provo nei loro confronti ammirazione e pena nello stesso tempo: li ammiro per la determinazione con cui hanno vissuto fino in fondo il loro incubo, anche se mi rattrista il pensiero che a ucciderli non sia stato un mostro degli abissi ma il non aver compreso che non tutto il dire implica l’ineluttabile obbligo del fare; raggiungere a tutti i costi lo scopo che ci s’inventa per dare un senso al proprio vivere, non rende nobile la morte.
I proverbi popolari, quelli che resistono al vento della modernità con la forza di querce centenarie, sono dei formidabili indizi per orientarsi nel Sūq maleodorante di significati in offerta speciale che narcotizzano le coscienze.
Agli orfani della domenica dico: “Bada a ciò che prometti a te stesso, se non vuoi trovarti solo, naufrago in un oceano di sentimenti contrastanti, con lo sguardo atterrito sulla coda del mostro che ha distrutto il fragile guscio dei tuoi sogni”.
Ai miei fratelli di sale invece, e a tutti quelli che stanno smaltendo in solitudine i postumi di una sbornia, auguro vada meglio al prossimo imbarco.