Quand’ero giovane, mi capitava d’incontrare dei pensionati seduti sulle panchine del lungomare, intenti, almeno in apparenza, a osservare le auto in transito sulla via Aurelia. Li guardavo di sfuggita, evitando d’incrociare il loro sguardo perché una sorta di pudore reverenziale m’imponeva di non turbare la loro solitudine.
Anche se li conoscevo, magari per averli incontrati insieme a mia madre, tiravo dritto fingendo di non averli riconosciuti. La verità è che quello sguardo fisso sul nulla, l’assenza d’intento che leggevo nei loro occhi, forse perché rassegnati all’ineluttabile deriva della vita verso la morte, m’incuteva un’angoscia che esorcizzavo allungando il passo. E mentre alzavo gli occhi al cielo, dicevo a me stesso che non sarei mai finito seduto su una panchina a guardare una vita che più non mi apparteneva e che, piuttosto, mi sarei tirato un colpo in testa.
Cosa c’entrano questi ricordi col fottuto Natale? “Tutto tutto, niente niente” risponderebbe lo sconosciuto filosofo contemporaneo che di mestiere fa l’attore.
Ormai ci sono abituato a fronteggiare la sindrome depressiva delle feste natalizie e surfando nella Rete ho scoperto di essere in buona e numerosa compagnia, per quanto riguarda il rifiuto di accondiscendere alla sconcia e ipocrita allegria che ci vorrebbe tutti buoni e felici al comando del calendario.
Vaffanculo Babbo Natale, non è solo quello che il cuore mi dice, ma anche il titolo di un post sul quale sono finito per caso. Non conosco l’autore, tale Zoppi, del quale ho apprezzato il fresco e sincero sentimento che ha ispirato il suo “Vaffanculo”, al quale mi associo con quel poco di anima che mi è rimasta.