L’Interfaccia, la struttura della psiche che a luci spente riflette l’immagine nascosta di noi stessi, quando si apre il sipario offre allo sguardo degli spettatori il nostro corpo, l’abito, la voce, i gesti, l’espressione del volto, come vorremmo essere visti dagli altri: immagine di noi stessi che raramente coincide con la realtà, anche quando la sala è vuota…
La barca nel dipinto di Maurilio Catalano che mi è piaciuto usare come metafora visuale dell’Interfaccia, sotto la vernice colorata potrebbe nascondere un legno marcio di sale; le surreali creature marine invece, forse uscite da un incubo del pittore, mi hanno fatto pensare agli agenti mentali che popolano la mente: desideri, aspettative, sensi di colpa, paure…
L’Interfaccia è una struttura dinamica della psiche che di fantastico ha la capacità di essere programmata tanto da noi stessi quanto dall’interazione con il mondo, inteso come ciò che è esterno alla nostra persona: gli altri esseri viventi, l’ambiente, il contesto, le circostanze.
Pensiamo all’autostima e immaginiamo che corrisponda alla capacità della barca di galleggiare, cavalcare le onde tempestose della vita senza affondare: quanto è sensibile all’opinione che altri hanno di noi? Vernici varie a parte, che a poco servono quando le acque sono davvero agitate, riuscirà il nostro scafo a resistere all’impatto di rifiuti, incomprensioni, giudizi dei quali ci sentiamo vittime incolpevoli? Al momento del bisogno, non solo quando le cose vanno per il verso giusto, il nostro scafo sarà abbastanza solido da resistere, oppure si schianterà facendoci naufragare in una crisi d’identità?
Dietro le quinte della quotidiana rappresentazione offerta a noi stessi e agli altri, gli agenti mentali, noti e sconosciuti, operano incessantemente alla definizione dell’Interfaccia, a prescindere dal livello di consapevolezza che possediamo, dalla nostra capacità d’intervenire sul codice con cui la mente elabora le proprie dinamiche. Con tutte le differenze che distinguono gli esseri umani, possiamo ipotizzare che alcuni soggetti posseggano un controllo elevato dei propri processi mentali, mentre altri ne siano del tutto inconsapevoli: greggi pascolate dall’espressione genetica combinata con l’imprinting culturale e le variabili di contesto.
La ragione che mi ha spinto a esplorare l’Interfaccia non è accademica ma di ordine pratico, a causa dell’impatto sui comportamenti, sulla qualità della vita: perdere l’affetto di una persona cara perché incapaci di comprenderla, è forse il peggiore dei danni che possiamo fare a noi stessi e agli altri e, purtroppo, capita che nemmeno ce ne rendiamo conto. Lo stesso potremmo dire dei sentimenti a senso unico, quelli che nella realtà soffrono di mancata reciprocità d’intento, perché il danno, in questo caso, lo faremmo continuando a illuderci che un giorno le cose possano cambiare in meglio: speranza legittima per chi crede ai miracoli.
Interfaccia è il titolo di una sceneggiatura che ho scritto seguendo le regole della cinematografia, ma con scarsa soddisfazione a lavoro completato.
Mi sono divertito con i dialoghi e le scene ma mi è mancato il supporto del testo per descrivere le dinamiche mentali dei personaggi, i chiaroscuri della loro consapevolezza. Scriverò un racconto, forse un romanzo, perché se è vero che il potere di coinvolgimento dello spettatore di un film è molto forte, è anche vero che le immagini e l’azione svelano solo la superficie psicologica dei personaggi, quei tratti della personalità che sono funzionali alle scene della storia. Nei film, i personaggi ci vengono consegnati così come li vediamo, ma di loro sappiamo solo quello che emerge dai dialoghi e dalla recitazione: poco rispetto all’imprinting ricevuto, i sentimenti, i pensieri ricorrenti, le fantasie, le angosce, le ossessioni. Il romanzo consente invece di scavare nella mente dei personaggi al livello di profondità che si vuole esplorare. La possibilità di raccontare l’essere di ogni personaggio e la sua psicologia è un valore proprio del racconto, che la cinematografia ha provato a integrare inserendo la voce narrante insieme ai salti nel passato (Forrest Gump per esempio), ma è una tecnica che può essere impiegata solo per il protagonista, se non si vuole incorrere nel rischio di scadere in una segmentazione didascalica del senso, di far perdere allo spettatore la tensione partecipativa generata dal divenire della storia nel presente.
Il tema dell’interfaccia come rappresentazione psicofisica di ciò che siamo mi ha sempre affascinato; l’avevo in mente da molto tempo, dalla prima volta che mi sono chiesto quale fosse la difficoltà del pensiero a codificare le emozioni e i sentimenti; e perché quando cerchiamo di esprimerli con parole e comportamenti non ci riusciamo come avremmo voluto fare. Un esempio della progressiva alterazione dell’intento lungo il percorso, credo lo abbiamo sperimentato tutti durante l’adolescenza: quando non riuscivamo mai ad esprimere quello che sentivamo di essere. Se frughiamo tra i ricordi e proviamo a misurare il divario tra come avevamo progettato di comportarci in certe occasioni e ciò che invece è avvenuto, sorge il sospetto che i nostri sentimenti, pensieri e proponimenti siano stati filtrati, se non distorti, nel percorso che hanno fatto per arrivare all’interlocutore; è plausibile supporre che tra la partenza e l’arrivo sia avvenuto un rimescolamento delle Carte d’Identità. Credo che esista una stazione fantasma sulla tratta che conduce dal profondo alla superficie di noi stessi, dove agisce qualcosa di assimilabile ad un software che processa ed elabora le componenti dell’Essere, al fine codificarle in modo tale da renderle intellegibili a noi stessi e agli altri; al resto pensano poi le convinzioni che danno forma all’Intento, l’insieme delle componenti e dei processi che codificano percezione e rappresentazione del nostro essere: l’Interfaccia.
La prima volta in cui ho avuto il sospetto che la mia consapevolezza fosse solo l’interfaccia di me stesso ci sono rimasto male. Avevo poco più di vent’anni, con gli ormoni perennemente in conflitto con i neuroni e sofferente di quell’insostenibile bisogno di dare un nome e un senso a ciò che percepivo e pensavo. Leggevo molto e di tutto, convinto che le risposte alle mie domande le avrei ottenute dai libri, ma ho trovato invece altre domande; tempo perso, verrebbe da dire, se non fosse che alcune di quelle letture mi hanno indotto a riflettere sulla correttezza delle domande che mi ponevo, sulla natura del bisogno che mi aveva spinto a formularle. Schopenhauer, per esempio, mi ha fatto capire quanto fosse stupido che Io, Interfaccia di me stesso, mi rivolgessi delle domande sul perché e il per come percepivo le cose e i sentimenti in un modo piuttosto che in un altro: Io, presunta incarnazione del Lógos ed espressione del suo percorso evolutivo, mi sono scoperto derubricato a interfaccia di entità sommerse con le quali condividevo l’esistenza.
Indagare la natura dell’Interfaccia e le sue dinamiche forse interessa a pochi, ma se ci chiediamo chi ha scritto il software che ci fa essere ciò che siamo e se possiamo modificarlo, allora l’argomento si fa interessante per chi sa leggere tra le righe.
Credo che capire come funzioni la nostra Interfaccia possa rivelare molte più informazioni su noi stessi di quelle che conosciamo o crediamo di conoscere.