Seleziona una pagina

Alto mareQuello che induce un essere umano a uscire dal ridosso è un’intuizione che emerge dal profondo, una certezza improvvisa che conduce all’urgenza di uscire da una situazione stagnante. Il ridosso, come sa bene chi ne è ormai assuefatto, è una condizione tutto sommato piacevole, ricca di riferimenti utili a mantenere un accettabile rapporto con il quotidiano.  L’altomare, per come ho avuto l’avventura di sperimentarlo, è caratterizzato invece dall’assenza di riferimenti esterni. Per fare ossigeno con l’aria salmastra che si respira in altomare è necessario allargare lo sguardo, entrare in un consapevole stato d’intimità con la propria anima, navigare in una dimensione mentale nella quale non ci si chiede perché il mare sia blu, ma quanta acqua potabile è rimasta nel serbatoio e per quanti giorni potrà ancora durare. Ecco gli unici riferimenti su cui si può far conto quando la rotta ci spinge fuori dalla carta nautica: i bisogni essenziali, vitali, talmente pochi e modesti da stare in un borsone o in uno zaino.
Se in una notte col cielo coperto ci si sveglia su una barca in pieno oceano, senza bussola o altri strumenti di navigazione, l’unica cosa da fare è regolare la rotta e le vele sul vento per mantenere una buona andatura, sedere in pozzetto e guardare la scia della barca, riflettere sulla paternità dell’impulso di mettersi in viaggio senza altra destinazione che un punto cardinale.
Per chi come me è nato e ha vissuto l’infanzia in un borgo marinaro, il mare rappresenta l’alternativa misteriosa e affascinante con la quale abbiamo giocato fin da bambini. La nostra storia col mare è cominciata zampettando la domenica mattina tra le pietre e la sabbia della spiaggia; poi è continuata con le piccole dita che accarezzavano il fondo sotto pochi centimetri d’acqua; fino al momento in cui il respiro è diventato tutt’uno con l’onda e abbiamo metabolizzato l’eccitante certezza del galleggiamento: l’abbraccio senza tempo con l’interfaccia liquida del pianeta. Così, un’estate dopo l’altra, il rapporto col mare si è arricchito di nuove modalità d’interazione che hanno allontanato sempre più la riva, aumentato la distanza dal fondo. Chi è nato in una città lontana dalla costa potrebbe chiedersi cosa può spingere un essere umano a partire per un viaggio senza meta verso l’orizzonte marino, quale sia il senso di andare in cerca della dimensione mentale dove si rischia d’incontrare solo i propri fantasmi. Forse ho risposto in parte a questa domanda quando ho menzionato l’emergere dei bisogni vitali sopra ogni altra istanza della mente, la ritrovata consapevolezza di quanto il nostro stesso esistere dipenda dall’aria che respiriamo, dall’acqua, dal cibo, da quel sapere scritto nelle nostre viscere che ci spinge ad esplorare il bordo di quell’immenso tritacarne che è la natura, anche a costo di finirci dentro.
“In altomare”, è una riflessione sulla condizione mentale di chi, mollati gli ormeggi, ha perso il contatto con quei riferimenti che costituivano il suo sistema di relazioni col mondo. Chi vive in altomare ha di fatto spento un lato della propria interfaccia: quello rivolto verso l’esterno, il lato esposto al mondo, quello che intercetta i messaggi che provengono da altri esseri umani. Non è per snobismo che i navigatori d’altura si sottraggono spesso al rapporto umano con altri ma per amore di verità: sanno di essere con la testa altrove anche se noi li vediamo, anche ce ci vivono accanto e apparentemente interagiscono con noi. I filosofi, gli scienziati, gli artisti che della necessità di esplorare l’altomare della vita ne hanno fatto uno scopo, hanno accettato di pagare con la moneta della solitudine la scelta di navigare nel concepibile, e sono grati verso chi comprende la loro condizione mentale di eterni viaggiatori. Non sempre però, perché dall’altomare si torna.
I navigatori che non affondano tornano in porto prima o poi: non fosse altro che per riposarsi e riparare i danni dell’ultima tempesta alla quale sono sopravvissuti. Anche loro amano perdersi nel rassicurante e caldo abbraccio di un affetto; solo ogni tanto però, perché l’altomare spurga la mente dalle malinconie, persino dall’amore, che è forse l’unico cibo capace di disturbare anche lo stomaco più resistente.
Quando sono a terra e incontro qualcuno in altomare, se non mi risponde alla prima lascio perdere: so che insistere finirebbe per irritarlo. Innamorarsi di qualcuno che in altomare ci vive poi, ai ragazzini può anche accadere, da adulti invece è autolesionismo, perché ci s’innamora di chi non c’è per nessuno, nemmeno per se stesso; quel qualcuno, nel senso più ampio del termine, non abbandonerà la propria navigazione solo perché in porto ci sono due braccia pronte ad accoglierlo.
Nel caso si accarezzasse l’idea di mollare gli ormeggi e si volesse qualche consiglio sull’abbigliamento, il momento buono per interagire con questi moderni nocchieri è quando sono seduti in qualche bar del porto, moderatamente ubriachi e con la voglia di raccontare al mondo quello che hanno visto quando navigavano in altomare