Potrebbe sembrare un’incitazione a delinquere e forse lo è, anche se il reato in questione è l’eccesso di quello spontaneo moto di autodifesa dei bambini sottoposti alle pressioni psicologiche degli adulti. Chi ha frequentato le lezioni di catechismo o di altra sciagurata forma d’indottrinamento religioso, può passarsi la mano sull’anima e ritrovare le vecchie cicatrici causate dai “VECCHI”, da quelli che ci hanno messo al mondo e si sono presi cura di noi; quelli ai quali non si poteva non credere quando ti spiegavano perché una cosa che ci sembrava stupida andava fatta, mentre quello che ci faceva star bene e divertire era sbagliato, era peccato e non dovevi farlo, pena il castigo. I più sani (di mente) sorrideranno all’idea che nei pensieri, parole e opere di un bambino possano esserci nefandezze tali da spedirlo all’inferno per l’eternità; altri, ne sono certo, stanno ritornando con la mente nei luoghi in cui hanno festeggiato la più illustre delle loro vittime in cerca del martello e dei chiodi…
Il simbolicidio contenuto nel romanzo Quando gira il tamburo è figlio di una casuale scoperta del Vohabolario di Stefano Rosi Galli.
Quando mi sono imbattuto nel detto: “I VECCHI ANDEREBBERO AMMAZZATI DA BAMBINI”, ho avuto la sensazione che per scoprirne il senso avrei dovuto navigare contemporaneamente su due diverse rotte, a seconda che s’interpreti il “DA BAMBINI” con “dai bambini”, oppure si consideri quel “DA” come uno stato, una condizione: quel modo semplice, senza incertezze o mediazioni (mi verrebbe da dire binario) con cui percepisce e agisce la maggior parte dei fanciulli. Nel caso di un soggetto anagraficamente bambino, il DA o il DAI coincidono e dunque sembrerebbe che la rotta da seguire sia una soltanto; ma non è proprio così perché, ad “ammazzare i vecchi”, ci provano anche quegli adulti che si sentono e si comportano come la maggior parte dei bambini, quando pensano quello che hanno nel cuore e dicono quello che vedono danzare sulla ribalta della propria e dell’altrui coscienza.
La storia del romanzo muove i primi passi dall’idea di un luminare della psichiatria determinato a costruire una macchina della verità particolare: più efficace di quelle esistenti, perché in grado di scoprire anche quando la persona esaminata mente a se stessa senza esserne consapevole. Mi era piaciuta l’idea di una macchina che potesse far piena luce sui sentimenti più profondi svelando le verità che la coscienza può distorcere o negare se le circostanze insinuano l’opportunità di farlo. Domande sull’onestà di un sentimento o di un intento possono risultare fatali per l’equilibrio mentale di chi ha vissuto anni, decenni magari, nella convinzione di amare una persona e si accorge invece di averla solo sopportata per senso del dovere; oppure per chi scopre che gli ideali e i valori ai quali è stato educato e sui quali ha progettato la propria identità, valgono quanto il profitto che se ne ricava da un onorevole compromesso col padrone del vapore. Credersi onesti e scoprire di essere solo degli abili manipolatori del giudizio morale sui propri e altrui comportamenti può svuotare di senso una vita, proprio come accade al luminare di psichiatria che sperimenta per primo su di sé l’infernale congegno da lui stesso progettato…
Nel finale del romanzo si trovano le coordinate per decodificare la personalità di un soggetto che pare non accusare l’impatto della verità inconscia sulla ragione; un tipaccio sui generis che, dal “basso” della propria reputazione sociale, può permettersi di relazionarsi col mondo in ragione di un pragmatismo basale che sconcerta e soggioga gli altri personaggi: persone per bene che appartengono al mondo dei cosiddetti “normali”, esseri umani che non hanno mai dubbi sugli attributi della propria identità, ignari che molti dei loro comportamenti siano stati programmati dagli altri, dai VECCHI.
Le prime battute della storia sembrano scontate come un minuetto ma la musica si arricchisce di un nuovo registro narrativo quando entra in scena un fiorentino di mezza età “orfano della Domenica”, un filosofo fallito che sbarca il lunario come programmatore freelance, ma talmente geniale nel suo lavoro che molte aziende se ne servono nonostante risulti sgradito perché considerato una persona volgare, un perdente, un alcolista col vizio delle scommesse e con una concezione del sesso tale da meritarsi il soprannome di Bukowski. Questo personaggio è il “cavallo di razza” che si è azzoppato da solo piuttosto che correre per qualcuno col frustino in mano; l’uomo al quale John Barleycorn ha messo la luce di Apollo negli occhi e i tamburi di Dioniso nei pantaloni; un individuo da tenere a debita distanza poiché, chi si avvicina troppo a lui subisce il degrado delle convinzioni che mediano il contatto con gli altri esseri umani e col profondo del proprio essere. Uno degli interrogativi che la storia vorrebbe stimolare, riguarda quel qualcosa che induce il cavallo ad azzopparsi volontariamente, a rifiutare la gruccia del branco, ad abbandonare il tepore della stalla e fuggire in cerca di una prateria che esiste solo nei suoi sogni.
Di questi tempi potrà suonare strano se non apparire snob, ma esistono ancora individui che rifiutano l’appartenenza coatta alla cultura dei padri fondatori, e non in ragione dell’ormai conclamato fallimento etico e morale dei loro pseudo valori, ma in virtù della resistenza a ogni forma di condizionamento. Anche se la storia non racconta molto dell’infanzia dei personaggi, dai comportamenti emerge la posizione assunta rispetto all’imprinting culturale ricevuto. Lo psichiatra, l’ingegnere manager e le due figure femminili che ricoprono rispettivamente il ruolo di assistente e segretaria, hanno raccolto e praticano l’eredità intellettuale dei genitori: alcuni l’hanno forse subita, ma si sono comunque adeguati alle sovrastrutture culturali e sociali imposte dal mondo degli adulti. Risulta invece subito evidente che il Bukowski fiorentino è “altro” perché ha scelto di ribellarsi, accettando di essere emarginato insieme all’umanità invisibile che vive nelle periferie sociali di un mondo costruito da altri e per altri, un mondo che l’antieroe di questa storia ha rifiutato fin dall’infanzia, “ammazzando” concettualmente tutto ciò che percepiva come VECCHIO in quanto paradigma di regole imposte da tautologiche verità che puzzano di artefatto, di falso.
Accade in tutte le guerre che la necessità di focalizzare il nemico indurisca il cuore e restringa lo sguardo di chi combatte: è dunque fatale che gli innocenti ci vadano di mezzo e, nel caso del nostro programmatore filosofo e di quelli come lui, ne fanno le spese i sentimenti, come pure quei nobili valori umani che tutti vorremmo vissuti, oltre che rispettati, ma che nella migliore delle ipotesi siamo spesso portati a ignorare. La filosofia infantile di questo cinquantenne che considera le donne come un’alternativa all’alcol, si manifesta a volte con una brutalità che viene percepita come volgare e cinica dagli altri personaggi della vicenda, i quali, tuttavia, ne subiscono inconsciamente il fascino animale per la forza vitale che emana. Nel corso di tutta la storia, il ruolo di Bukowski è funzionale al dipanarsi della trama, ma durante gli incontri (più spesso scontri) con gli altri personaggi riesce a farne traballare le certezze, insinua in loro il dubbio verso ciò che sono diventati in età adulta e li induce a propendere per una rottura col passato, a cambiare qualcosa nel sistema di valori e convinzioni che regola la loro vita.
Chi la vita ama ruminarsela in pace senza troppe complicazioni intellettuali o etiche, troverà spinosa la metafora che i bambini debbano ammazzare i vecchi. Forse è superfluo spiegare che i VECCHI, fuori metafora, sono quelli che dettano legge nel pascolo e nelle stalle. Questa preponderante quota di umanità, spesso bella da vedere e da vivere, non verrà nemmeno sfiorata dal dubbio di essere solo carne da macello; sono brave persone che sanno come trattare i dubbi quando gli ronzano intorno come mosconi: se ne liberano con un colpo di coda e, dopo una rapida occhiata al cielo, giusto per controllare che sia ancora al suo posto, spostano il muso sopra un rassicurante ciuffo di trifoglio surgelato.
Non so quanti comprenderanno il dubbio sollevato dal finale della storia, quando il VECCHIO sembra prendere le sembianze di Bukowski che russa nel suo letto. Non è da escludere che qualche solerte spippacervelli collochi il mio lavoro nel rassicurante alveo delle patologie mentali, magari come effetto collaterale di quegli sturbi della personalità che alimentano il mercato delle mutande di cachemire.
P.S.
Il titolo l’ho letto nel Vohabolario di Stefano Rosi Galli.