Il 23 Dicembre del 1975, spinto da uno dei demoni che mi scorrazzavano nella mente, avevo infilato quattro cose nello zaino ed ero salito sul treno per Parigi: sbarcato da pochi giorni, non mi andava di passare il Natale in una famiglia che esisteva solo all’anagrafe o, peggio che mai, ospite sgradito in casa di parenti.
Mi ero rifugiato in quel decadente hotel vicino a Porte Saint-Denis perché troppi ricordi mi pesavano sullo stomaco; sentivo il bisogno di defilarmi dal presente, stare da solo, riflettermi in quel me stesso tornato dall’Africa con l’anima a brandelli.
Durante il tragitto dalla stazione al piccolo hotel dove avrei soggiornato, le luci, le vetrine dei negozi, la gente drogata di “spirito natalizio” carica di pacchi in confezione regalo che affollava le strade, mi hanno fatto sentire come un alieno. Forse è stata quella sensazione a farmi virare dal bordo dell’autocommiserazione a una sana e consapevole incazzatura.
Il testo che segue, scritto la notte del Natale di quell’anno, l’ho pubblicato nella raccolta di poesie Tasparenze.
Come ogni giorno
il sole si è levato
gli uccelli cantano
le acque scorrono.
Gli uomini uccidono
come in un giorno qualunque
mani esperte recidono i fiori
per adornare chiese e salotti
mentre qualcuno muore di fame
come in un giorno qualunque.
Il mondo è in festa
tutti cantano lodi
fanno promesse
perché non è un giorno qualunque
e i baci non si contano
e tutti si sentono buoni
in questo giorno speciale.
Viene la sera
un gatto muore
travolto da un’auto
che non può rallentare
perché deve andare alla festa
dove si celebra pace e bontà.
Mentre il mondo
sazio riposa
un cane randagio
latra alla luna
e la notte
raccoglie i lamenti
di chi ha nella morte
la sola compagna.
Nel vino e nei canti
si spengono infine
le luci e gli sguardi
che ingoiano
gli ultimi istanti
di un giorno speciale
come se fossero
i miseri resti
di un giorno qualunque.